Il Decreto legge num. 113 del 4 ottobre 2018, convertito in legge num. 132 il 27 novembre 2018 - “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata" ridefinendo e restringendo il concetto di sicurezza, indica su quale terreno dovremo misurarci nei prossimi anni sul piano del contrasto alle mafie. Rappresenta l’ultimo tassello del lungo corso legislativo che, dal ’96 ad oggi, ha accompagnato la normativa antimafia sul riuso sociale dei beni confiscati, inserendosi in totale discontinuità con quel percorso avviato nel ’95 da Libera con la raccolta del milione di firme per rendere concreta l’intuizione di Pio La Torre. Il decreto introduce diverse modifiche al decreto num.159/2011, il cd. codice antimafia.

La possibilità di vendita dei beni confiscati era già prefigurata nelle disposizioni del codice antimafia, ma come misura di extrema ratio. Le modifiche che il decreto sicurezza apporta al codice antimafia, incidono sulla gestione e sulla vita futura dei beni confiscati, mettendo al centro – all’art.36 comma 5 lettera d) - lo strumento della vendita:

I beni di cui al comma 3, di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate, sono destinati con provvedimento dell’Agenzia alla vendita l’acquirente dovrà presentare la relativa domanda entro centoventi giorni dal perfezionamento dell’atto di vendita.

Sempre all’articolo all’art.36 comma 5 lettera d) si chiarisce successivamente anche il criterio della destinazione del bene messo in vendita:

La vendita è effettuata per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stima formulata ai sensi dell’articolo 47. Qualora, entro novanta giorni dalla data di pubblicazione dell’avviso di vendita, non pervengano proposte di acquisto per il corrispettivo indicato al precedente periodo, il prezzo minimo della vendita non può, comunque, essere determinato in misura inferiore all’80 per cento del valore della suddetta stima. Fatto salvo il disposto dei commi 6 e 7 del presente articolo, la vendita è effettuata al miglior offerente […]

Il meccanismo della vendita diventa a tutti gli effetti non più uno strumento a limite del percorso di riuso sociale, ma il modo per semplificare e risolvere il problema della gestione di un sempre più cospicuo numero di beni presenti sul territorio nazionale. Il “miglior offerente” diventa il paradigma delle nuove policy attorno alla destinazione dei beni: non si tratta più immaginare e costruire le condizioni per il riuso sociale, ma puntare a fare cassa su un patrimonio pubblico, derivante dalla restituzione ai cittadini di un maltolto: quello della violenza e dello strapotere con cui le mafie sui territori hanno potuto fare affari e accumulare ricchezze. La logica del libero mercato colpisce come una clava il principio del riuso sociale e il valore della cooperazione. Queste sette parole (la vendita è effettuata al miglior offerente, ndr) demoliscono culturalmente - e rischiano di farlo de facto - l’ottica redistributiva e risarcitoria alla base dell’intuizione della legge num. 109/96 che nello spirito del testo si richiamava ai principi fondamentali dell’articolo 3 secondo comma della nostra Costituzione quando recita:

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

I beni confiscati sono uno straordinario strumento, proprio lì dove le disuguaglianze sono più forti, per costruire percorsi di autonomia e giustizia sociale. In poche righe cambia profondamente l’assetto delle policy future sui beni. Di seguito alcuni stralci funzionali al commento del decreto.

Dal primo stralcio emerge un dato fortemente preoccupante. I beni confiscati, dice il testo, una volta acquistati da un soggetto privato non potranno essere rivenduti per cinque anni dalla data di trascrizione del contratto: una tempistica che potremmo definire “irrisoria” se pensiamo che persino per le case popolari hanno un divieto di alienazione di durata decennale. Questo vorrà dire che, appena dopo cinque anni, un privato potrà rivendere il bene confiscato, disperdendo così completamente il suo valore etico e sociale, rischiando seriamente che ritorni in mani mafiose. Ancora più grave sarebbe poi se il bene acquistato da un prestanome di un mafioso fosse rimesso in vendita a un soggetto terzo in buona fede che non ha nessun legame con il clan: questo consentirebbe un “effetto lavatrice” sul valore patrimoniale del bene, rendendolo quasi inaggredibile dall’autorità giudiziaria. In generale è chiaro che si indeboliranno - dopo i cinque anni di divieto di alienazione - inevitabilmente le maglie del controllo giudiziario per la quantità di beni e per le difficoltà a monitorare le sorti di tutto l’enorme patrimonio pubblico confiscato. Nel decreto sono previsti strumenti di controllo e verifica affinché ciò non avvenga, ma bisognerà riconoscere che sarà oggettivamente complesso controllare che ogni singolo atto di ri-vendita di un bene, dopo cinque anni dall’acquisto di un soggetto privato, sia affidato nelle mani qualcuno che non abbia legami con la criminalità organizzata. Qui lo stralcio del decreto (all’art. 36 comma 5 lettera d):

I beni immobili acquistati non possono essere alienati, nemmeno parzialmente, per cinque anni dalla data di trascrizione del contratto di vendita e quelli diversi dai fabbricati sono assoggettati alla stessa disciplina prevista per questi ultimi dall’articolo 12 del decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 maggio 1978, n. 191.

Un altro aspetto che emerge riguarda le modalità di vendita. Il riuso sociale rischia di essere messo, in un primo momento, sullo stesso piano della vendita e, in seguito, di essere ridotto ai margini dei processi di destinazione ed assegnazione. La ragione per cui si sostiene questa tesi è comprovata da due stralci del decreto sicurezza che rendono la vendita un processo molto più semplificato, nonché più pericoloso, e maggiormente conveniente al soggetto che ha in carico la gestione dei beni confiscati: l’agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Per il riuso sociale dei beni confiscati esiste una procedura che spesso risulta essere molto lenta, anche se altrettanto accurata: passaggio dei beni dall’agenzia al comune, capacità della macchina comunale di predisporre un bando di assegnazione, tempi di assegnazione e di concessione effettiva del comodato d’uso all’ente gestore del bene. Nel caso della vendita il processo è notevolmente più veloce: per i beni confiscati di valore inferiore ai 400.000 euro si potrà effettuare una vendita sulla base di una trattativa privata. Per i beni con valore superiore ai 400.000 euro si procederà tramite lo strumento dell’asta pubblica. A chiarirlo è il decreto che recita così all’articolo 36 comma 5 lettera d):

[…]I beni immobili di valore superiore a 400.000 euro sono alienati secondo le procedure previste dalle norme di contabilità dello Stato.

Il decreto in questo passaggio sopraindicato non esplicita le modalità, ma le rimanda direttamente alle procedure di contabilità dello Stato che in questi casi – citando il parere del Consiglio Nazionale del Notariato (Studio n. 17-2017/C , dal titolo: Alienazione dei beni pubblici dello Stato) - indicano:

La disciplina ordinaria di riferimento per la vendita dei beni immobili di proprietà dello Stato è recata dalle disposizioni di cui all’art. 1, commi 436, 437 e 438 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 e successive modificazioni e integrazioni (95), che sostituiscono la previgente disciplina […] improntati a criteri di economicità e di redditività. In base all’attuale normativa, l’Agenzia del demanio può alienare i beni immobili di proprietà dello Stato, che non formano oggetto delle procedure di dismissione speciali, singolarmente o in blocco:

«a) mediante trattativa privata, se di valore unitario o complessivo non superiore ad euro 400.000;

b) mediante asta pubblica ovvero invito pubblico ad offrire, se di valore unitario o complessivo superiore ad euro 400.000, e, qualora non aggiudicati, mediante trattativa privata.

[…] L’aggiudicazione avviene, nelle procedure concorsuali, a favore dell’offerta più alta rispetto al prezzo di base ovvero, nelle procedure ad offerta libera, a favore dell’offerta migliore […]

In sintesi abbiamo di fronte una procedura, quella della vendita, estremamente più rapida rispetto alle modalità previste dal riuso sociale e al contempo anche più pericolosa. Non solo perché appare estremamente dubbio lo strumento dell’asta pubblica, che si basa semplicemente sul criterio del miglior offerente, ma risulta ancora più grave l’idea della trattiva privata come strumento tramite il quale svendere un patrimonio pubblico dello Stato. Quando parliamo di beni dal valore inferiore ai 400.000 euro, parliamo di medi e grandi appartamenti nei centri storici delle città, ville appartenute a boss in periferie o città di provincia. Parliamo non di un piccolissima parte del patrimonio nelle disponibilità di enti locali e ANBSC, ma di un folto numero di beni, i quali potranno essere venduti semplicemente tramite una trattativa privata.

Il secondo stralcio del testo del decreto riguarda invece la spinta incrementale alla vendita attraverso destinazione di risorse ad hoc all’ANBSC frutto dei proventi della vendita (art. 36 comma 7):

Le somme ricavate dalla vendita di cui al comma 5, al netto delle spese per la gestione e la vendita degli stessi, affluiscono al Fondo Unico Giustizia per essere riassegnate […] nella misura del venti per cento all’Agenzia, per assicurare lo sviluppo delle proprie attività istituzionali, in coerenza con gli obiettivi di stabilità della finanza pubblica.»;

Insomma: più si è in grado di vendere beni e di fare cassa, più ci saranno risorse a disposizione per l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati. La premessa è d’obbligo: quando parliamo dell’ANBSC non parliamo di un “carrozzone”, ma di un’agenzia dello Stato che fa da anni un lavoro prezioso, con pochissime risorse e personale in periodi in cui c’è stato un notevole incremento dei sequestri e delle confische ai mafiosi. L’agenzia necessita di più personale e di risorse per gestire la mole enorme di beni e aziende. Tuttavia scegliere di sostenere l’agenzia con le spese dei proventi delle vendite vuol dire costruire un meccanismo che inevitabilmente spingerà più al meccanismo della vendita che a quello della destinazione per fini di riuso sociale. La spinta del decreto alla vendita la ritroviamo anche quando nel testo si modifica l’articolo 48 comma 4 del codice antimafia in merito ai proventi derivanti dai beni immobili “mantenuti al patrimonio dello Stato e, previa autorizzazione del Ministro dell'interno, utilizzati dall'Agenzia per finalita' economiche”. Il decreto reciterebbe all’art. 36 comma 3 lettera b), a seguito delle modifiche così:

I proventi derivanti dall'utilizzo dei beni di cui al comma 3, lettera b), affluiscono, al netto delle spese di conservazione ed amministrazione, al Fondo unico giustizia […] nonché, per una quota non superiore al 30 per cento, per incrementare i fondi per la contrattazione integrativa anche allo scopo di valorizzare l’apporto del personale dirigenziale e non dirigenziale al potenziamento dell’efficacia ed efficienza dell’azione dell’Agenzia. La misura della quota annua destinata all’incremento dei fondi per la contrattazione integrativa viene definita con decreto del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze su proposta dell’Agenzia e l’incremento non può essere superiore al 15 per cento della componente variabile della retribuzione accessoria in godimento da parte del predetto personale»

Non solo quindi la procedura della vendita è più rapida; non solo l’Agenzia in quanto tale se vuole potenziare e rendere più efficiente il suo lavoro, con più strumenti e personale, dovrà mettere in vendita quanti più beni possibile per ricavarne proventi per le proprie attività; sarà anche il personale stesso dell’ANBSC invogliato a implementare le procedure di vendita dei beni confiscati ancora nelle disponibilità dello Stato, perché i proventi rappresentano un’occasione per incrementare la contrattazione integrativa per i salari dei singoli dipendenti.


 

La vendita come privatizzazione del patrimonio statale e come attacco ai principi della legge 109/96

 

Le particelle catastali confiscate attualmente destinate (dai dati diffusi dal sito benisequestratieconfiscati.it al 29 gennaio 2019) sono 15.565; quelle in gestione sono 16.874 per un totale di 32.439 beni. Sono 777 le realtà che riutilizzano beni confiscati, per un totale di diverse migliaia di particelle catastali, censite dalla rete di Libera all’interno del portale Confiscatibene.it. Circa 226 sono le realtà produttive tra cooperative, A.T.S. e consorzi che hanno reso i beni confiscati luoghi in cui sviluppare occupazione. Il resto sono divisi soprattutto tra associazioni, fondazioni, enti pubblici, sedi scout, enti di formazione, scuole, enti ecclesiastici prendere dati aggiornati. Dopo ventitrè anni -nonostante le esperienze straordinarie costruite in questi anni sui beni – non si è risolta la crasi tra beni confiscati a disposizione e quelli effettivamente riutilizzati. Questa situazione non è imputabile ad una saturazione delle possibilità di riutilizzo, ma risiedono nell’assenza di politiche strutturali di pianificazione sul riuso dei beni; nell’assenza di risorse destinate a sviluppare occasioni di innovazione e di occupazione a partire dal riuso dei beni stessi; nella mancanza di un’implementazione di strumenti economici e sociali funzionali alla costruzione di un’idea di sviluppo economico, di insediamento industriale, di politiche sociali ed abitative, di politiche agricole mettendo al centro i beni confiscati.

Eppure nel Mezzogiorno, il patrimonio è così consistente che meriterebbe un capitolo di bilancio e di programmazione finanziaria ad hoc. Bene dirlo subito: con questo decreto si rischia una svendita e privatizzazione enorme di patrimonio pubblico. Suona come una dichiarazione di resa: siccome lo Stato non riesce a costruire politiche volte a implementare il riutilizzo sociale dei beni confiscati, tanto vale metterli in vendita. Questo decreto è il più grande passo indietro dei governi, dal 1996 ad oggi. Basta leggere il decreto per avere chiaro che il problema non sia soltanto la svendita del patrimonio pubblico, ma anche la tipologia di soggetti che potranno acquistare i beni. Libera e altre grandi realtà ed associazioni hanno già denunciato, prima e dopo l’approvazione del decreto, un aspetto preoccupante: il rischio che il bene ritorni agli illegittimi proprietari; rischio tra l’altro avvalorato – come si è provato a segnalare poc’anzi – dalla possibilità che il privato che abbia acquisito il bene, dopo cinque anni lo rimetta in vendita, indebolendo le maglie di controllo dello Stato. Esiste tuttavia un pericolo ulteriore e altrettanto grave, che però non ha bisogno di contravvenire o eludere le leggi del codice antimafia. Il decreto lo esplicita - all’art. 36 comma 6 - parlando dei soggetti che hanno diritto di prelazione all’acquisto:

 

Possono esercitare la prelazione all’acquisto:

a) cooperative edilizie costituite da personale delle Forze armate o delle Forze di polizia;

b) gli enti pubblici aventi, tra le altre finalità istituzionali, anche quella dell’investimento nel settore immobiliare;

c) le associazioni di categoria che assicurano, nello specifico progetto, maggiori garanzie e utilità per il per- seguimento dell’interesse pubblico;

d) le fondazioni bancarie;

e) gli enti territoriali.

 

Fondazioni bancarie, associazioni di categoria, privati vari potranno acquistare beni confiscati e farne occasione di propria patrimonializzazione e profitti. Alcuni di questi soggetti sono già i migliori e maggiori acquirenti del patrimonio pubblico italiano da diversi decenni. L’intuizione di quel milione di firme raccolte nel 1995 era un altro: rendere i beni confiscati, in piccola parte, uno degli strumenti per realizzare l’articolo 3 comma 2 della Costituzione e farlo lì dove ce n’è maggior bisogno: a Sud. Di quegli oltre trentacinquemila beni confiscati circa l’80% è nel Sud Italia. È a Sud che i fenomeni mafiosi hanno preso corpo, hanno sfruttato, usurpato, violentato, ucciso, devastato maggiormente. Restituire il maltolto doveva voler dire soprattutto questo: dare una possibilità occupazionale e di autonomia a quei territori che hanno subito la violenza mafiosa; dare un’opportunità a territori che non hanno servizi, infrastrutture, insediamenti lavorativi proprio perché è lì che le mafie hanno sottratto ricchezze e impoverito le persone. Questo discorso vale anche per il Nord Italia, dove emergono sempre di più numeri patrimoniali rilevanti di beni confiscati: bisognerebbe implementare e spingere verso occasioni di riutilizzo sociale; bisognerebbe costruire anche nel Nord Italia esperienze e pratiche importanti di riutilizzo sociale, così come lo è stato con le cooperative facenti parte del Consorzio Libera Terra Mediterraneo o di NCO (Nuova Cooperazione Organizzata) nel Mezzogiorno. C’è bisogno di far crescere una nuova consapevolezza contro le mafie in tutto il Paese e questo può accadere soprattutto se si concretizzano possibilità di lavoro, integrazione e welfare a partire dal riuso sociale. Dare invece la possibilità a multinazionali, a grandi colossi imprenditoriali e immobiliari di comprare i beni confiscati vuol dire strozzare nella culla una grande opportunità mai davvero presa in considerazione: cambiare modello di sviluppo, restituendo ai giovani un’opportunità di mettersi in gioco a partire dal riutilizzo di quei beni, in un mercato del lavoro sempre più povero e precario.

 

Ipotesi di casi a confronto

Per dimostrare che il pericolo è concreto si prenderanno in esame due casi ipotetici, ma non così astratti: un terreno agricolo e un complesso di immobili in un centro città. Mettiamo che questo bene equivalga a 15 ettari e insista nel territorio di Castel Volturno in provincia di Caserta. Questo bene non è ancora destinato e viene messo in vendita. Un terreno agricolo ha il valore medio di 20.000 euro ad ettaro. La somma quindi è inferiore a 400.000 euro e si può procedere alla vendita tramite lo strumento della trattativa privata. Se escludiamo il caso estremo e peggiore - quello che il camorrista per conto terzi, attraverso un prestanome, acquisti il terreno – ci potremmo trovare in una condizione dove a partecipare alla trattiva privata sia una grande impresa del settore agricolo del centronord. L’impresa acquista il terreno e può assumere lavoratori sul territorio a seconda delle attuali normative sul lavoro (che per intenderci tendono tutt’altro che alla stabilizzazione delle persone). Nello stesso territorio insiste un’esperienza nascente di agricoltura sociale, una cooperativa di giovani, che ha deciso di cimentarsi nel riuso sociale dei beni confiscati. Ora, come potrà questa nascente cooperativa competere minimamente con una grande impresa agricola del centronord? Entrambe possono spendere sul mercato il valore etico di prodotti coltivati su un bene confiscato alle mafie. La differenza è che mentre gli investimenti di una start up agricola di giovani saranno estremamente e naturalmente risicati, la grande impresa avrà alle spalle la solidità e la possibilità di fare enormi investimenti. E questo azzererebbe ogni competizione possibile a priori sulla produzione e sul marketing. Naturalmente qualora il gioco non valesse la candela, qualora l’investimento non andasse a buon fine, dopo 5 anni sarà possibile rivendere il terreno a qualcun altro, aumentando ulteriormente il rischio che ritorni nelle mani del clan che possedeva quel bene. Il riutilizzo sociale di un bene confiscato dovrebbe rappresentare, invece, due cose allo stesso momento: restituzione del maltolto alle popolazioni che hanno subito la violenza mafiosa e scegliere un modello di sviluppo, valorizzando in particolare la forma cooperativa, capace di dare protagonismo, lavoro ed autonomia ai giovani del territorio.

Stesso discorso vale anche per il caso del patrimonio immobiliare. Nella città di Napoli esistono decine e decine di appartamenti confiscati alla camorra. Diversi di questi sono nel centro città che gode di una forte spinta turistica, in un momento storico in cui i b&b si aprono come funghi. La somma di ogni singolo bene è anche qui notevolmente inferiore ai 400.000 euro e si procede attraverso lo strumento della trattativa privata. A rispondere, all’avviso di evidenza pubblica della messa in vendita, è un grande gruppo immobiliare della città che decide di partecipare a 30 diverse trattative per acquistare 30 appartamenti nel centro storico. Sarà quindi consentito al grande gruppo immobiliare di avere una straordinaria occasione di speculazione immobiliare, sfruttando la grande occasione derivante dal turismo. Nel contempo un gruppo di giovani vorrebbe costruire un’esperienza di riuso sociale attraverso la progettazione di un co-housing tra nativi e migranti per favorire l’integrazione nel centro città e diminuire i possibili conflitti sul territorio. Per realizzarla ci vogliono risorse e tempo. Quante occasioni del genere di occupazione, autonomia e integrazione verranno strozzate dalla messa in vendita dei beni? Quanto invece si rischia di favorire la speculazione immobiliare anziché la rinascita culturale e sociale dei territori? Non sono domande irrisolte, ma pericoli in cui si incorrerà inevitabilmente perché si disperde così la visione di fondo, la prospettiva a lungo termine, l’idea che per sconfiggere le mafie lo Stato debba dare a quei territori, che hanno subito il ricatto mafioso, un’opportunità di dignità e di riscatto. Questa opportunità grazie al decreto sicurezza oggi è notevolmente più debole.

 

L’idea di Stato nascosta dal decreto

Mettere assieme dal punto di vista legislativo tre diversi aspetti: sicurezza pubblica, immigrazione e gestione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie è una chiara scelta politica. Si tratta di una decisione nient’affatto casuale o determinata da un’emergenza contingente. Il decreto sicurezza coincide appieno con un’idea di <<Stato Minimo>>, che in continuità con le politiche di dismissione del ruolo pubblico, abdica alla sua funzione costituzionale – farsi garante di un’uguaglianza realizzabile attraverso lavoro e diritti ed essere regolatore pubblico dell’economia - e viene relegato ad un mero garante dell’ordine pubblico. La scelta della decretazione d’emergenza e della fiducia parlamentare è stato solo l’atto capace di sancire, anche stavolta, l’impoverimento della nostra democrazia.

Fenomeni complessi e strutturati nella società vengono ridotti a problemi da risolvere attraverso il semplice ordine repressivo. E in questa semplificazione è inevitabile che si inserisca il discorso sul contrasto alle mafie, derubricate soltanto ad un problema di sicurezza. È lo stesso decreto sicurezza – all’articolo 36 comma 2 - ad indicarcelo conferendo nuovamente le competenze sui beni confiscati al Ministero dell’Interno. In questo modo non si riconosce la necessità di una visione generale sul riuso dei beni e il sequestro e la confisca sono concepiti solo come un’azione di ordine pubblico. Occorre invece un’azione più profonda e capace di sradicare le ragioni persistenti delle mafie che continuano a rigenerarsi soprattutto a causa di un ecosistema culturale, sociale ed economico sempre più impoverito. L’unica risposta in alcuni quartieri del Sud non può continuare ad essere l’esclusivo impiego della forza.

Per le “classi sociali marginali e pericolose” in questo modo non c’è destino e possibilità: non si integrano nella società tramite il lavoro, la cultura ed il welfare; non hanno possibilità di emanciparsi, di rompere le catene dal potere di chi organizza i propri affari attraverso la violenza e il controllo del territorio.

Il riuso dei beni confiscati può essere invece un’occasione di dignità, libertà e sviluppo per quelle periferie, per quelle migliaia di donne e uomini che vivono sotto il ricatto e la violenza delle mafie. Con questo decreto invece rischiano di diventare un’opportunità di profitto per i privati: da occasione per liberare ed emancipare le persone, creando condizioni vere di autonomia e sviluppo, diventano una semplice operazione di cassa per lo Stato. Eppure è a causa di quella stratificazione sociale e marginale che le mafie trovano potere e consenso; è a causa di quelle risposte che non arrivano mai che le mafie continuano ad autogenerarsi, nonostante gli arresti.

Il decreto sicurezza è stato approvato, ma la battaglia in difesa della legge num. 109/96 non è assolutamente finita. Il principio del riuso sociale dei beni confiscati va assolutamente salvato. Lo si deve a quel 50% di giovani senza lavoro, costretto ad emigrare, a quelle donne e quegli uomini che tutti i giorni vivono in quartieri difficili e lo fanno con onestà, spesso sfruttati e precari.

È ancora il momento buono per restituire ai territori del Sud, come anche del Nord, l’opportunità e la giustizia che gli è stata negata dalle mafie. Lo hanno dimostrato le tante esperienze di riuso sociale in Italia: lavoro, sviluppo, agricoltura di qualità, innovazione, servizi, punti di aggregazione, progetti di sviluppo per il territorio. Esperienze straordinarie. Pensate se questa meraviglia si potesse moltiplicare per cento? Basta solo cambiare rotta e smettere di lasciare al caso una delle più grande opportunità che abbiamo: sconfiggere le mafie restituendo la dignità.

 

 

Mariano Di Palma - coordinatore segreteria di Libera in Campania