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admin | 29/10/2014
11:59am
La burocrazia come un attentato. Nel percorso di riconversione dei beni confiscati alle mafie anche una firma può determinare ritardi che favoriscono gli interessi delle cosche a riappropriarsene. Succede che da mesi mille decreti di destinazione siano bloccati, perché manca la nomina del consiglio direttivo dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati. Decisione, questa, che spetta al presidente del Consiglio su proposta del ministro degli Interni. Oggi c'è un uomo solo alla guida ed è Umberto Postiglione, già prefetto di Palermo e Agrigento, che senza gli altri quattro componenti e con appena 45 dipendenti deve affrontare da solo alcune spinose questioni. Innanzitutto, il ritardo nella destinazione di beni immobili e aziende. Nell'ultimo biennio, a fronte di un aumento delle confische in via giudiziaria, nella fase amministrativa, quella che determina la consegna della casa o della ditta a comuni, associazioni o forze dell'ordine, si è registrata una brusca frenata.
Il neo direttore, in carica dal 18 giugno scorso, intanto, va avanti a colpi di decisioni monocratiche. "Abbiamo pronti mille decreti di destinazione, le decisioni le prendo da solo poi il consiglio ratificherà". Il tempo è il principale alleato della mafia, che ha tutto l'interesse in un fallimento delle politiche di riutilizzo dei beni confiscati, soprattutto delle aziende. Licenziamenti si traducono in nuova emergenza sociale e alimentano il sentimento del "rimpiangere i capoclan". Sono 1700 le aziende confiscate alla criminalità organizzata, 1200 delle quali ancora sotto la gestione dell'Agenzia.
Ma il numero è destinato a salire, visto che il database è fermo al 7 gennaio 2013. L'assenza del consiglio direttivo non è l'unico vuoto da colmare. Manca il lancio definitivo del sistema informatico Regio, il database nazionale che renderà più efficace la lotta ai patrimoni criminali, finanziato con 7,2 milioni di euro di fondi statali ed europei e non ancora utilizzato. Su questo punto Postiglione annuncia novità imminenti ("Siamo in fase di collaudo, attendiamo i dati dal Sippi, Sistema informatico di Procure e Prefetture") ripetendo ciò che a luglio 2014 affermò in audizione in Commissione antimafia.
Direttore Postiglione, decreti fermi, inefficienze e licenziamenti non rischiano di rafforzare i mafiosi?
"Stiamo lavorando sugli aspetti seri e complessi di questa situazione. Analizziamo caso per caso, soprattutto quando sono coinvolti persone, lavoratori. I dati sulle aziende, ad esempio, vanno analizzati a fondo. I dipendenti delle società sottratte ai mafiosi sono 1200, di cui 900 nella sola Sicilia. Contiamo meno di un occupato per ogni azienda, nella maggior parte dei casi siamo di fronte solo a lavatrici di denaro sporco, sedi di pochi metri quadrati, con una scrivania, una sedia e un dipendente, magari pure arrestato".
Le proteste dei sindacati, l'allarme di Libera, quelli però erano reali.
"Salvare un'azienda vera, con clienti veri e dipendenti in carne e ossa, è un nostro compito. Lo abbiamo fatto con i supermercati di Giuseppe Grigoli, un prestanome di Matteo Messina Denaro. Una nuova società (la Esse Emme, ndr), ha rilevato 32 punti vendita dell'ex gruppo 6Gdo confiscato nel 2013 dell'imprenditore colluso. In ballo c'erano anche 400 posti di lavoro, compreso l'indotto".
Sul lavoro ha avuto qualche screzio con la Commissione parlamentare antimafia.
"La Commissione ci accusa di voler far passare il principio che la mafia faceva lavorare e lo Stato no. Prima di affermare ciò, dovremmo analizzare le singole vicende. Chiediamoci se la mafia dava lavoro o utilizzava quelle aziende come strumento per una previdenza sociale per gli affiliati o loro parenti. Quando arriva lo Stato con la confisca, quella società perde la clientela, perde il credito, perché improvvisamente le banche si accorgono che è viziata dalla mafia; perde ovviamente la possibilità di estorcere denaro e di intimidire i clienti, e penso al pizzo sul calcestruzzo; perde la possibilità di costringere un dipendente a firmare buste paga da 1800 euro e intascarne soltanto 700".
Quindi, un'azienda mafiosa merita di chiudere prima ancora di ogni tentativo di salvataggio?
"Va verificato caso per caso. Propongo che nella fase di sequestro venga compilato un questionario, con l'aiuto della polizia giudiziaria, secondo una griglia di domande che ci consentirà di verificare se sussistono gli elementi per considerarla una vera azienda o solo un'articolazione della struttura criminale o una lavatrice di denaro sporco. In quest'ultimo caso il magistrato al momento del sequestro deve metterla in liquidazione, perché non possiamo dissanguare i proventi del lavoro di chi ha svolto le indagini, continuando a gestire qualcosa che non può essere gestita".
Foto: Alessandro Pautasso/Flickr